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giovedì 5 maggio 2011

ASCOLTO IL TUO CUORE, CITTA’



Il coraggio che noi architetti siciliani non abbiamo mai avuto è stato quello di non avere mai  denunciato, con toni aspri e forti, la mancanza di una coscienza collettiva, tale da sviluppare dei sistemi operativi veloci nelle trasformazioni urbane, al fine di salvaguardare i valori che il nostro territorio ha per natura e storia.

Bisogna adoperarsi, al più presto, per trovare un accordo tra la politica, gli operatori del settore (architetti, ingegneri, geometri e geologi) e le forze sane della società  capendo qual è la reale tendenza dell’economia siciliana.
Oggi non si può più guardare ad un’economia che continua a guadagnare dall’edilizia, perché siamo già con una volumetria  abitativa di parecchio superiore a quella che realmente serve.
Possiamo continuare a portare avanti l’industria edilizia ma solo per raggiungere la media nazionale d’infrastrutture.
La ricchezza della Sicilia è fatta di cose che dobbiamo ancora scoprire.
Il settore turistico, ad esempio, ha molte possibilità di sviluppo, ma il prodotto lo dobbiamo ancora preparare. (foto 3)
Le nostre città non hanno più la necessità di crescere a dismisura vista la bassa crescita demografica.
La politica degli anni passati, nella sua spasmodica corsa ad estendere in maniera incontrollata le aree periferiche, ha trascurato di introdurre nella pianificazione una serie di norme di carattere ecologico che sarebbero state necessarie al fine di definire i lineamenti dell’insieme spaziale nelle nuove forme architettoniche e preservare il territorio dalle contemporanee tragedie.
I centri urbani della nostra isola non hanno bisogno di nessun nuovo tipo di forma urbana esterna, ma piuttosto di provvedimenti oculati quali ad esempio: la deviazione dei grandi traffici veicolari; la localizzazione d’aree parcheggio necessarie solo all’attività residenziale, facendo in modo che rimangano ampi spazi per la pedonalizzazione. (foto 2)
In tutto questo diventa assolutamente necessario ed imprescindibile il recupero dei centri storici attraverso un sistema  di salvaguardia dei beni naturali ed artificiali.
Infatti, la società moderna deve avere un controllo globale dei beni naturali ed artificiali e talvolta questi beni vanno recuperati ed integralmente conservati.
Tutto ciò è possibile se viene determinata una normativa che rende diffusa la partecipazione al problema e che porta ad un consenso generale.
Non si può pretendere che ci siano dei tecnici efficienti in una società che non s’interessa di queste cose.
Da sempre la politica ha generato un errore considerando il tecnico come colui che deve, in maniera del tutto convenzionale, preparare un certo prodotto.
Non si è mai posta attenzione al rapporto che si deve instaurare tra la committenza sociale e la parte tecnica.
Bisogna, soprattutto nel terreno dell’assetto territoriale, che il contesto sociale entri nel merito di quello che si fa, capirlo, apprezzarlo, discuterlo fino al punto di accettare e condividere, come interesse proprio, il fatto che una parte di territorio è da vincolare rigidamente ed una parte da lasciare alla libera iniziativa.
Bisogna pertanto immediatamente convergere verso una duplice normativa: una più libera ed una più rigida.
Quella rigida per salvare cose storiche e naturali; quella libera per i territori nei quali l’attività richiede rapide trasformazioni.
Ciò sarà possibile solo mettendoci tutti d’accordo e sapendo che se da un lato esiste la necessità di operare veloci trasformazioni dall’altro dobbiamo salvare i valori che il territorio ha per sua natura e storia.
Il rapporto con la storia va letto come capacità, specifica, di esaminare, interpretare e giudicare il portato delle sedimentazioni storiche; come completamento del nostro presente e non soltanto come apporto di regole compositive e d’immagini formali cui riferirsi.
Il segreto sta nel saper leggere all’interno del patrimonio storico per individuarvi tutte le diversità ed autenticità che le cose, grandi o piccole, uniche o seriali, sedimentate nell’esperienza storica assumono nelle diverse situazioni ambientali in cui si collocano. Queste situazioni sono riconducibili ad ambiti nei quali si distrugge l’astrattezza delle tipologie funzionali e si costruisce una nuova esperienza articolata sulle attuali necessità d’uso e di forma.
Inoltre, in questa sede bisogna fare risaltare l’inadeguatezza degli strumenti urbanistici fino ad oggi partoriti.
Infatti, è nell’inadeguatezza dei Piani Regolatori Generali ed alla loro lunga crisi attuativa che bisogna rinviare per comprendere come in essi le norme, vigenti ancora oggi dal periodo fascista, hanno subito pochissime trasformazioni per adeguarsi alle esigenze attuali della vita comunale e mantengono inalterato il principio gerarchico dell’autorità, secondo un sistema piramidale dei criteri di pianificazione, che dal generale arriva fino allo strumento attuativo del particolareggiato.
E’ inammissibile che ancora oggi un piano regolatore debba essere un semplice schema, con indicazioni generiche da creare un vero e proprio ostacolo alle corrette attuazioni, dovendo rinviare ai piani particolareggiati per la definizione delle altezze, del numero dei piani, distanze tra edifici, densità territoriale, numero e qualità dei servizi.
Inoltre, questi ultimi, essendo l’ingrandimento di quanto schematicamente descritto nei disegni a grande scala del piano regolatore, continuano ad avere prescrizioni esecutive in contrasto con le reali esigenze della realtà topologica dei gruppi sociali insediati; continuando a richiedere numerose varianti specifiche e cercando, per la loro attuazione, vie spesso ambigue e lontane dalla realtà.
Una situazione, questa, che ha impedito che ogni comunità potesse realizzare una propria organizzazione spaziale capace di esprimere nei segni l’iconicità architettonica in cui ogni gruppo sociale sente il bisogno di riconoscersi.
Su queste basi e tenendo conto di questi problemi tutti noi dobbiamo lavorare al fine di riscoprire un valore imprescindibile: l’ARCHITETTURA ed il suo incensurabile rapporto con l’URBANISTICA.
Naturalmente, dobbiamo svincolarci da tendenze che negli ultimi anni sono state preponderanti rispetto ad un reale riscoperta dei valori.
Dobbiamo riprendere a pensare sul piano della realtà e non delle immagini non corpose. Le immagini ci hanno tolto il faticoso rapporto con la realtà, il rapporto con il bello che scaturisce dalla sensibilità dell’uomo.
Oggi tutti, travolti dall’estetica dell’immagine, non riusciamo più a comprendere l’architettura.
Solo riuscendo ad usare autentici valori architettonici riusciremo ad essere protagonisti nelle trasformazioni della così detta “terza era industriale”.

“L’architettura si specchia nel tempo. La faccia di ogni epoca si riflette nella propria architettura. Simili relazioni corrono fra tempo ed architettura, quali tra mare e cielo. Perché si continua a dire che l’architettura è un arte? L’arte guarda fuori di casa. L’arte viene di lontano  e va lontano. ……. Sulla facciata degli edifici non è scritta soltanto la data della loro nascita, ma sono scritti gli umori pure, i costumi, i pensieri più segreti del loro tempo. (Alberto Savinio - Ascolto il tuo cuore, città. – 1984 Adelphi Edizioni s.p.a.-Milano)

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