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lunedì 28 settembre 2015

QUATTROPIEDIEOTTOPOLLICIEMEZZO, quando la contamporaneità è già storia


Locomotiva a vapore di Richard Trevithick - 1804
Ritrovarsi a passeggiare a Palermo in mezzo al cantiere per la nuova linea del metrò non è sicuramente il massimo dello svago. Purtroppo, dovendo, una di queste mattine, occupare il tempo, in attesa che mia figlia terminasse gli esami per l’ammissione all’università, mi sono ritrovato come un anziano pensionato a soffermarmi, lungo questo interminabile cantiere, ad osservare le maestranze che operavano per  mettere in opera i binari della metropolitana di superficie che ammodernerà il sistema di trasporti urbani della “Felicissima Palermo”.
Così, mi sono stupito a vedere che il sistema di posa dei binari è veramente semplicissimo. Mediante una dima, prefabbricata in officina, gli operai riescono a fare correre parallelamente le rotaie ferroviarie senza dovere di volta in volta verificarne le misure per accertarne l’equidistanza. Un sistema costruttivo semplice e banale che sicuramente non è il prodotto di grandi ingegnerizzazioni. Un sistema proveniente da lontano e dalla tradizione delle maestranze artigiane, il quale consente che, nel continuum dell’anello ferroviario, i binari possano correre alla distanza, quasi invariabile, di 143,5 cm.
Narra una storia, a cavallo tra leggenda e realtà, che la misura di 143,5 cm derivi da un sistema costruttivo di epoca romana arrivato fino ai giorni nostri grazie al signor Richard Trevithick.
Richard Trevithick fu l’inventore della prima locomotiva a vapore (1804); i più, come me, forse ricordavano il signor Stephenson, ma wikipedia docet.
La prima locomotiva a vapore era una macchina, oggi diremmo elementare, realizzata con una caldaia, alimentata a carbone, posta su di un carro. Il carro utilizzato era uno dei carri usati dai lavoratori delle miniere di Pennydarren nel Galles, per trasportare in superficie il carbone estratto.
E' noto infatti che la prima macchina a vapore nasce in epoca di prima rivoluzione industriale con  scopi propriamente industriali, al fine di accelerare il processo di risalita delle materie estratte.
I carri, allora utilizzati, erano ovviamente comunissimi carri di legno ancora trainati da cavalli, che furono posti su binari, allora ancora in legno, per trasportare carbone fuori dalle miniere.
Il carro, storicamente, fu un'invenzione di circa 2000 anni fa ed il suo uso come mezzo di trasporto merci fu ampiamente sfruttato dei nostri progenitori romani i quali, durante i loro spostamenti per le lunghe e sanguinose campagne di conquista ai confini dell’impero, li utilizzavano per il trasporto delle derrate alimentari e di tutto l’occorrente per installare i campi militari, frutto del genio urbanistico dell’epoca imperiale.
Inizialmente, i carri romani si muovevano su piste in terra battuta, aperte con fatica dai legionari in avanguardia; solo in seguito, una volta consolidati i confini dell'impero, gli stessi iniziarono a costruite le vere e proprie vie (viae in latino), che erano le strade extraurbane che, partendo da Roma, raggiungevano i punti più remoti del grande impero. Il termine latino “viae”, ovviamente, esprimeva anche il senso di "trasporto" ed il detto "tutte le strade portano a Roma" ne esplicita perfettamente il senso costruttivo.
Le strade romane erano pensate per durare a lungo (a differenza di come pensiamo le nostre): prima di tutto veniva scavata una trincea profonda circa 45/60 cm, che veniva riempita con successivi strati di terra, pietra e sabbia fino a raggiungere il livello del terreno. Il tutto veniva cementato con la calcina e poi venivano rivestite con grosse lastre poligonali di basalto o calcare, incastrate perfettamente tra loro; gli interstizi erano riempiti da breccia di diversa granulometria; infine, le più importanti, di rena compattata, per permettere alle bighe (carri leggeri) o ai cavalli di correre veloci.
La larghezza della carreggiata, ed è questa la vera curosità a metà strada tra leggenda e storia, venne stabilita dagli architetti romani (all’epoca non esistevano gli ingegneri che sono un’invenzione dell’Ecole Polytechnique de Paris di fine ottocento) dalla misura di due cavalli, trainanti i carri, affiancati. Tale misura corrisponde a circa 143,5 cm.
La cosa ancora più curiosa è che i 143,5 cm, pari a 4 piedi e 8 pollici e ½ dei paesi anglosassoni e utilizzata nella costruzione dei binari percorsi dalla caldaia su carro di Trevithick, è una misura che è diventata uno standard costruttivo nella storia dei trasporti su binario.
Sebbene infatti altri sperimentatori, dopo Trevithick, provassero a usare interassi differenti, per le ruote delle loro locomotive, ancora oggi la distanza predefinita dei binari, percorsi dai treni o da qualsiasi altro mezzo su rotaia, è pari a 143,5 cm.
Addirittura, si può arrivare ad affermare che tale misura abbia condizionato anche la realizzazione dei primi razzi che furono mandati in orbita. Negli U.S.A., dove i luoghi di fabbricazione delle diverse componenti dei razzi erano distanti dal luogo di assemblaggio e partenza degli stessi, le dimensioni dei serbatoi di carburante, essendo trasportati su rotaie, venivano condizionate dalle dimensioni dei vagoni usati per il loro trasporto.
Ancora più incredibile, se ci pensiamo bene, è che i treni ad alta velocità, oggi in circolazione e che utilizzano le più avanzate tecnologie computerizzate, adottano una misura che ha attraversato i millenni di storia dell’evoluzione scientifica.
Forse, come mio solito, ho preso il discorso alla larga, ma questa parafrasi mi conduce ad una riflessione sul lavoro condotto da noi architetti ed al nostro rapporto con la storia.
Infatti, poiché inconsapevolmente assorbiti da una cultura globalizzante, non ci rendiamo conto che nelle nostre azioni progettuali ci confrontiamo sempre con la natura, la storia e la cultura millenaria del nostro mestiere e dei nostri territori. Soprattutto non ci rendiamo conto di come la natura, la storia e la cultura prorompano nei nostri esercizi progettuali. Per cui sarebbe ora che, mettendo da parte le visioni architettoniche patinate e stereotipate, imparassimo a riportare questi tre elementi a fattore primario per della nostra ricerca.
Il patrimonio naturale, storico e culturale consolidato, con il quale costantemente ci misuriamo, deve essere, ormai, risorsa propulsiva  per i nostri progetti proiettati al futuro.
Soprattutto la nostra cultura architettonica mediterranea, poiché coacervo di diverse identità e multirazziale, deve divenire patrimonio per il lavoro degli architetti e deve essere messa a reddito attraverso una  reinterpretazione che ne possa stravolgere gli stilemi ma non la semantica.
Solo in tale maniera il nostro territorio e i suoi paesaggi, rurali, marinari o urbani che siano, insieme alla loro ricchezza immateriale, potranno divenire modelli per uno sviluppo legato ad un riuso sostenibile.

mercoledì 3 giugno 2015

QUANDO HO PRANZATO CON GUTTUSO, i tempi di libero amore non tornano più.

Sarà stato intorno alla metà degli anni settanta, lo ricordo perché ero piccolo e ricordo mia sorella ancora più piccola di me. Era una domenica, perché solo la domenica il giudice aveva acconsentito che io e mia sorella potessimo vedere a pranzo mio padre; i miei erano separati. Eravamo io, mia sorella e mio padre seduti al tavolo dell'osteria, San Marco si chiamava, e mangiavamo un fritto di calamari. Quando i calamari erano ancora cibo da trattoria, non i totani che ti servono adesso, e venivano prima impanati, con farina del Molino Saccense, poi fritti in padella con olio di oliva e quindi serviti, in piatti spessi di porcellana bianca, con vino sfuso di catarratto ghiacciato. Allora ricordo un uomo canuto seduto all'angolo della trattoria in prossimità della grande vetrata, che prospettava (prospetta ancora ma la trattoria oggi non esiste più ed è stata trasformata in un ristorante minimal chic e ti servono gli antipasti su delle lastre nere di non so che materiale) sul corso Vittorio Emanuele, che riempiva di luce meridiana l'intero locale. "Quello è Guttuso", disse mio padre rompendo il silenzio che contraddistingueva i nostri pranzi domenicali. "Chi è Guttuso?", chiese allora mia sorella (era sempre lei, con la sua verve, a rompere le monotonie domenicali). Così mio padre iniziò una lunga lezione mista di storia dell'arte e politica; era un uomo abbastanza colto mio padre e noi eravamo il suo pubblico preferito. Mia sorella incuriosita, o forse no, si alzò dal tavolo e andò a piazzarsi davanti a quell'uomo canuto intento a leggere il giornale. Non ricordo come, forse mio padre si alzò per riprendersi la figlia disturbatrice e impertinente, ma ricordo che finimmo il pranzo di calamari fritti seduti al tavolo con Renato Guttuso. Tra i due uomini si instaurò una lunga conversazione, mio padre era un grande conversatore, che si protrasse per il lungo pomeriggio (forse da ciò posso desumere che potevamo essere in prossimità dell'estate o forse dell'autunno) continuando oltre la trattoria lungo la piazza Angelo Scandaliato (già piazza del Popolo). Ovviamente non ricordo di cosa parlavano i due ma, avendo conosciuto in seguito mio padre, sicuramente avranno parlato di pittura e partito comunista. E' strano come tornino alla nostra memoria ricordi dei quali avevamo perso completamente la traccia. Ed è ancora più strano come questi ricordi ritornino a galla. Ieri ho visto un servizio a Tg regione dove si diceva che al PADIGLIONE EXPO della Sicilia è stato costruito un percorso sensoriale, fatto di suoni e profumi artificiali che difficilmente i nostri figli potranno naturalmente assaporare, che, completamente al buio, introduce il visitatore all'interno del quadro "Vuccirìa", opera del grande maestro bagherese. Questa notte ho sognato finalmente mia sorella.  

sabato 23 maggio 2015

LA POLVERE SOTTO IL TAPPETO, sul teatro (confidenzialmente detto) Samonà ed altro

Quello che si è consumato in questi giorni non può che essere un evento di grande spirito culturale. La temporanea apertura del teatro popolare a doppia sala di Sciacca, conosciuto ai più come teatro Samonà (dal cognome dei progettisti), è sicuramente un grande evento culturale per la città di Sciacca.
Finalmente un atto che rende giustizia prima ad una grande opera di architettura, presente su tutti i più importanti manuali di storia dell'architettura, e poi a due grandi maestri dell'architettura contemporanea quali sono stati i Samonà padre e figlio: Giuseppe (ingegnere ndr.) e Alberto (architetto ndr.). Per un architetto come il sottoscritto, formatosi in periodo universitario seguendo i corsi di coloro che in Sicilia sono stati i discepoli di questi maestri dell'architettura, potervici mettere piede è come per un bambino entrare nel suo cartone animato preferito. Un'opera sicuramente controversa e che ha determinato diverse correnti di pensiero, pro e contro. Odiata ed amata dai cittadini, soprattutto per la sua fisicità e per la forzatura del suo inserimento in un contesto ambientale particolare come quello del parco delle terme. Forse poco calibrata dimensionalmente e leggermente fuori scala. Un tentativo forse non proprio riuscito di assimilare l'edificio alla natura intorno, sul promontorio dove sorge. Ma tutto, ritengo, è relativo. Ci siamo mai chiesti come si sono espressi i cittadini dell'epoca quando sono stati realizzati, nella stessa area, il complesso dell'ex convento di S. Francesco prima, il complesso termale poi ed infine il Grand Hotel delle Terme. Tre opere avanguardiste, se collocate nel loro periodo di realizzazione (in ordine: 1200 c., 1930 c. e 1960 c.), in quanto figlie di un'espressione architettonica, per l'epoca, modernista. Tre opere alle quali è stata comunque restituita la loro dignità esistenziale dal trascorrere del tempo (oggi siamo tutti romanticamente attaccati a tutto ciò che è vecchio). Lo stesso può dirsi per questo teatro figlio del suo tempo. Il concepimento dell'opera è avvenuta in un periodo in cui: l'uso del cemento armato era la panacèa tecnologica a tutti i sistemi costruttivi; il calcestruzzo faccia a vista veniva sostituito alla pietra da plasmare e modellare; le forme geometriche pure (cono inclinato, prisma rettangolo e semi piramide) erano figlie di una più avanzata cultura architettonica razionalista derivante dall'epopea fascista ( Giuseppe Samonà aveva conseguito gli studi di ingegneria a Palermo a metà degli anni 20 dello scorso secolo ed aveva iniziato ad insegnare a Messina in pieno periodo fascista); le stesse decorazioni presenti sulle facciate, "...che umanizzano il calcestruzzo/pietra..." (cit.), sono memoria di quell'avanguardia pittorica che a partire da Braque, passando per Picasso, aveva smaterializzato la figura per restituirla ricomposta in forme geometriche elementari (cubismo). La stessa dimensione strutturale è frutto della visione politica dei tempi in cui Sciacca "sarebbe" dovuta divenire, all'interno di un Piano Comprensoriale a grande scala territoriale, polo attrattore di uno sviluppo economico della parte occidentale dell'ex Provincia di Agrigento. Insomma, il teatro di Sciacca è, sebbene devastato da un intervento di recupero edilizio dissennato (ne parlo da ruskiniano convinto), un'opera  d'architettura che giustamente merita di essere menzionata su tutti i trattati di architettura contemporanea. Un'opera , come abbiamo già detto, fortemente incompresa perché ad oggi incompiuta e soprattutto perché emblema di quel sistema affaristico illegale legato al sistema degli appalti pubblici degli anni 80 e 90 del 900, che faceva lievitare i costi delle opere pubbliche a livello esponenziale senza mai prevederne l'ultimazione dei lavori. Un'opera che è stata anche occasione di contrapposizioni politiche, pseudo ideologiche e scarsamente idealiste. Ma comunque, oggi siamo tutti a fare festa perché finalmente il teatro vive, anche se per tre soli giorni. Oggi tutti "dobbiamo" fare festa perchè viene restituito alla città un pezzo di storia dell'architettura d'inestimabile valore. Grazie a questo evento abbiamo tutti messo l'abito delle occasioni migliori, compreso i primi detrattori dell'opera, e rispolverato il sorriso di circostanza per tagliare il nastro, farci i nostri selfie, e portare alla vita per 3 giornate il TEATRO SAMONA'. Abbiamo smesso di parlare male del Samonà; abbiamo tirato a lustro la città; abbiamo addirittura istituito le zone a traffico limitato per i graditi ospiti. Abbiamo anche noi, finalmente dopo 30 anni, il nostro evento mondano alla scala. "The show must go on"! Ma cosa accadrà quando alla fine della fiera tireremo via i tappeti?