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lunedì 28 settembre 2015

QUATTROPIEDIEOTTOPOLLICIEMEZZO, quando la contamporaneità è già storia


Locomotiva a vapore di Richard Trevithick - 1804
Ritrovarsi a passeggiare a Palermo in mezzo al cantiere per la nuova linea del metrò non è sicuramente il massimo dello svago. Purtroppo, dovendo, una di queste mattine, occupare il tempo, in attesa che mia figlia terminasse gli esami per l’ammissione all’università, mi sono ritrovato come un anziano pensionato a soffermarmi, lungo questo interminabile cantiere, ad osservare le maestranze che operavano per  mettere in opera i binari della metropolitana di superficie che ammodernerà il sistema di trasporti urbani della “Felicissima Palermo”.
Così, mi sono stupito a vedere che il sistema di posa dei binari è veramente semplicissimo. Mediante una dima, prefabbricata in officina, gli operai riescono a fare correre parallelamente le rotaie ferroviarie senza dovere di volta in volta verificarne le misure per accertarne l’equidistanza. Un sistema costruttivo semplice e banale che sicuramente non è il prodotto di grandi ingegnerizzazioni. Un sistema proveniente da lontano e dalla tradizione delle maestranze artigiane, il quale consente che, nel continuum dell’anello ferroviario, i binari possano correre alla distanza, quasi invariabile, di 143,5 cm.
Narra una storia, a cavallo tra leggenda e realtà, che la misura di 143,5 cm derivi da un sistema costruttivo di epoca romana arrivato fino ai giorni nostri grazie al signor Richard Trevithick.
Richard Trevithick fu l’inventore della prima locomotiva a vapore (1804); i più, come me, forse ricordavano il signor Stephenson, ma wikipedia docet.
La prima locomotiva a vapore era una macchina, oggi diremmo elementare, realizzata con una caldaia, alimentata a carbone, posta su di un carro. Il carro utilizzato era uno dei carri usati dai lavoratori delle miniere di Pennydarren nel Galles, per trasportare in superficie il carbone estratto.
E' noto infatti che la prima macchina a vapore nasce in epoca di prima rivoluzione industriale con  scopi propriamente industriali, al fine di accelerare il processo di risalita delle materie estratte.
I carri, allora utilizzati, erano ovviamente comunissimi carri di legno ancora trainati da cavalli, che furono posti su binari, allora ancora in legno, per trasportare carbone fuori dalle miniere.
Il carro, storicamente, fu un'invenzione di circa 2000 anni fa ed il suo uso come mezzo di trasporto merci fu ampiamente sfruttato dei nostri progenitori romani i quali, durante i loro spostamenti per le lunghe e sanguinose campagne di conquista ai confini dell’impero, li utilizzavano per il trasporto delle derrate alimentari e di tutto l’occorrente per installare i campi militari, frutto del genio urbanistico dell’epoca imperiale.
Inizialmente, i carri romani si muovevano su piste in terra battuta, aperte con fatica dai legionari in avanguardia; solo in seguito, una volta consolidati i confini dell'impero, gli stessi iniziarono a costruite le vere e proprie vie (viae in latino), che erano le strade extraurbane che, partendo da Roma, raggiungevano i punti più remoti del grande impero. Il termine latino “viae”, ovviamente, esprimeva anche il senso di "trasporto" ed il detto "tutte le strade portano a Roma" ne esplicita perfettamente il senso costruttivo.
Le strade romane erano pensate per durare a lungo (a differenza di come pensiamo le nostre): prima di tutto veniva scavata una trincea profonda circa 45/60 cm, che veniva riempita con successivi strati di terra, pietra e sabbia fino a raggiungere il livello del terreno. Il tutto veniva cementato con la calcina e poi venivano rivestite con grosse lastre poligonali di basalto o calcare, incastrate perfettamente tra loro; gli interstizi erano riempiti da breccia di diversa granulometria; infine, le più importanti, di rena compattata, per permettere alle bighe (carri leggeri) o ai cavalli di correre veloci.
La larghezza della carreggiata, ed è questa la vera curosità a metà strada tra leggenda e storia, venne stabilita dagli architetti romani (all’epoca non esistevano gli ingegneri che sono un’invenzione dell’Ecole Polytechnique de Paris di fine ottocento) dalla misura di due cavalli, trainanti i carri, affiancati. Tale misura corrisponde a circa 143,5 cm.
La cosa ancora più curiosa è che i 143,5 cm, pari a 4 piedi e 8 pollici e ½ dei paesi anglosassoni e utilizzata nella costruzione dei binari percorsi dalla caldaia su carro di Trevithick, è una misura che è diventata uno standard costruttivo nella storia dei trasporti su binario.
Sebbene infatti altri sperimentatori, dopo Trevithick, provassero a usare interassi differenti, per le ruote delle loro locomotive, ancora oggi la distanza predefinita dei binari, percorsi dai treni o da qualsiasi altro mezzo su rotaia, è pari a 143,5 cm.
Addirittura, si può arrivare ad affermare che tale misura abbia condizionato anche la realizzazione dei primi razzi che furono mandati in orbita. Negli U.S.A., dove i luoghi di fabbricazione delle diverse componenti dei razzi erano distanti dal luogo di assemblaggio e partenza degli stessi, le dimensioni dei serbatoi di carburante, essendo trasportati su rotaie, venivano condizionate dalle dimensioni dei vagoni usati per il loro trasporto.
Ancora più incredibile, se ci pensiamo bene, è che i treni ad alta velocità, oggi in circolazione e che utilizzano le più avanzate tecnologie computerizzate, adottano una misura che ha attraversato i millenni di storia dell’evoluzione scientifica.
Forse, come mio solito, ho preso il discorso alla larga, ma questa parafrasi mi conduce ad una riflessione sul lavoro condotto da noi architetti ed al nostro rapporto con la storia.
Infatti, poiché inconsapevolmente assorbiti da una cultura globalizzante, non ci rendiamo conto che nelle nostre azioni progettuali ci confrontiamo sempre con la natura, la storia e la cultura millenaria del nostro mestiere e dei nostri territori. Soprattutto non ci rendiamo conto di come la natura, la storia e la cultura prorompano nei nostri esercizi progettuali. Per cui sarebbe ora che, mettendo da parte le visioni architettoniche patinate e stereotipate, imparassimo a riportare questi tre elementi a fattore primario per della nostra ricerca.
Il patrimonio naturale, storico e culturale consolidato, con il quale costantemente ci misuriamo, deve essere, ormai, risorsa propulsiva  per i nostri progetti proiettati al futuro.
Soprattutto la nostra cultura architettonica mediterranea, poiché coacervo di diverse identità e multirazziale, deve divenire patrimonio per il lavoro degli architetti e deve essere messa a reddito attraverso una  reinterpretazione che ne possa stravolgere gli stilemi ma non la semantica.
Solo in tale maniera il nostro territorio e i suoi paesaggi, rurali, marinari o urbani che siano, insieme alla loro ricchezza immateriale, potranno divenire modelli per uno sviluppo legato ad un riuso sostenibile.

mercoledì 3 giugno 2015

QUANDO HO PRANZATO CON GUTTUSO, i tempi di libero amore non tornano più.

Sarà stato intorno alla metà degli anni settanta, lo ricordo perché ero piccolo e ricordo mia sorella ancora più piccola di me. Era una domenica, perché solo la domenica il giudice aveva acconsentito che io e mia sorella potessimo vedere a pranzo mio padre; i miei erano separati. Eravamo io, mia sorella e mio padre seduti al tavolo dell'osteria, San Marco si chiamava, e mangiavamo un fritto di calamari. Quando i calamari erano ancora cibo da trattoria, non i totani che ti servono adesso, e venivano prima impanati, con farina del Molino Saccense, poi fritti in padella con olio di oliva e quindi serviti, in piatti spessi di porcellana bianca, con vino sfuso di catarratto ghiacciato. Allora ricordo un uomo canuto seduto all'angolo della trattoria in prossimità della grande vetrata, che prospettava (prospetta ancora ma la trattoria oggi non esiste più ed è stata trasformata in un ristorante minimal chic e ti servono gli antipasti su delle lastre nere di non so che materiale) sul corso Vittorio Emanuele, che riempiva di luce meridiana l'intero locale. "Quello è Guttuso", disse mio padre rompendo il silenzio che contraddistingueva i nostri pranzi domenicali. "Chi è Guttuso?", chiese allora mia sorella (era sempre lei, con la sua verve, a rompere le monotonie domenicali). Così mio padre iniziò una lunga lezione mista di storia dell'arte e politica; era un uomo abbastanza colto mio padre e noi eravamo il suo pubblico preferito. Mia sorella incuriosita, o forse no, si alzò dal tavolo e andò a piazzarsi davanti a quell'uomo canuto intento a leggere il giornale. Non ricordo come, forse mio padre si alzò per riprendersi la figlia disturbatrice e impertinente, ma ricordo che finimmo il pranzo di calamari fritti seduti al tavolo con Renato Guttuso. Tra i due uomini si instaurò una lunga conversazione, mio padre era un grande conversatore, che si protrasse per il lungo pomeriggio (forse da ciò posso desumere che potevamo essere in prossimità dell'estate o forse dell'autunno) continuando oltre la trattoria lungo la piazza Angelo Scandaliato (già piazza del Popolo). Ovviamente non ricordo di cosa parlavano i due ma, avendo conosciuto in seguito mio padre, sicuramente avranno parlato di pittura e partito comunista. E' strano come tornino alla nostra memoria ricordi dei quali avevamo perso completamente la traccia. Ed è ancora più strano come questi ricordi ritornino a galla. Ieri ho visto un servizio a Tg regione dove si diceva che al PADIGLIONE EXPO della Sicilia è stato costruito un percorso sensoriale, fatto di suoni e profumi artificiali che difficilmente i nostri figli potranno naturalmente assaporare, che, completamente al buio, introduce il visitatore all'interno del quadro "Vuccirìa", opera del grande maestro bagherese. Questa notte ho sognato finalmente mia sorella.  

sabato 23 maggio 2015

LA POLVERE SOTTO IL TAPPETO, sul teatro (confidenzialmente detto) Samonà ed altro

Quello che si è consumato in questi giorni non può che essere un evento di grande spirito culturale. La temporanea apertura del teatro popolare a doppia sala di Sciacca, conosciuto ai più come teatro Samonà (dal cognome dei progettisti), è sicuramente un grande evento culturale per la città di Sciacca.
Finalmente un atto che rende giustizia prima ad una grande opera di architettura, presente su tutti i più importanti manuali di storia dell'architettura, e poi a due grandi maestri dell'architettura contemporanea quali sono stati i Samonà padre e figlio: Giuseppe (ingegnere ndr.) e Alberto (architetto ndr.). Per un architetto come il sottoscritto, formatosi in periodo universitario seguendo i corsi di coloro che in Sicilia sono stati i discepoli di questi maestri dell'architettura, potervici mettere piede è come per un bambino entrare nel suo cartone animato preferito. Un'opera sicuramente controversa e che ha determinato diverse correnti di pensiero, pro e contro. Odiata ed amata dai cittadini, soprattutto per la sua fisicità e per la forzatura del suo inserimento in un contesto ambientale particolare come quello del parco delle terme. Forse poco calibrata dimensionalmente e leggermente fuori scala. Un tentativo forse non proprio riuscito di assimilare l'edificio alla natura intorno, sul promontorio dove sorge. Ma tutto, ritengo, è relativo. Ci siamo mai chiesti come si sono espressi i cittadini dell'epoca quando sono stati realizzati, nella stessa area, il complesso dell'ex convento di S. Francesco prima, il complesso termale poi ed infine il Grand Hotel delle Terme. Tre opere avanguardiste, se collocate nel loro periodo di realizzazione (in ordine: 1200 c., 1930 c. e 1960 c.), in quanto figlie di un'espressione architettonica, per l'epoca, modernista. Tre opere alle quali è stata comunque restituita la loro dignità esistenziale dal trascorrere del tempo (oggi siamo tutti romanticamente attaccati a tutto ciò che è vecchio). Lo stesso può dirsi per questo teatro figlio del suo tempo. Il concepimento dell'opera è avvenuta in un periodo in cui: l'uso del cemento armato era la panacèa tecnologica a tutti i sistemi costruttivi; il calcestruzzo faccia a vista veniva sostituito alla pietra da plasmare e modellare; le forme geometriche pure (cono inclinato, prisma rettangolo e semi piramide) erano figlie di una più avanzata cultura architettonica razionalista derivante dall'epopea fascista ( Giuseppe Samonà aveva conseguito gli studi di ingegneria a Palermo a metà degli anni 20 dello scorso secolo ed aveva iniziato ad insegnare a Messina in pieno periodo fascista); le stesse decorazioni presenti sulle facciate, "...che umanizzano il calcestruzzo/pietra..." (cit.), sono memoria di quell'avanguardia pittorica che a partire da Braque, passando per Picasso, aveva smaterializzato la figura per restituirla ricomposta in forme geometriche elementari (cubismo). La stessa dimensione strutturale è frutto della visione politica dei tempi in cui Sciacca "sarebbe" dovuta divenire, all'interno di un Piano Comprensoriale a grande scala territoriale, polo attrattore di uno sviluppo economico della parte occidentale dell'ex Provincia di Agrigento. Insomma, il teatro di Sciacca è, sebbene devastato da un intervento di recupero edilizio dissennato (ne parlo da ruskiniano convinto), un'opera  d'architettura che giustamente merita di essere menzionata su tutti i trattati di architettura contemporanea. Un'opera , come abbiamo già detto, fortemente incompresa perché ad oggi incompiuta e soprattutto perché emblema di quel sistema affaristico illegale legato al sistema degli appalti pubblici degli anni 80 e 90 del 900, che faceva lievitare i costi delle opere pubbliche a livello esponenziale senza mai prevederne l'ultimazione dei lavori. Un'opera che è stata anche occasione di contrapposizioni politiche, pseudo ideologiche e scarsamente idealiste. Ma comunque, oggi siamo tutti a fare festa perché finalmente il teatro vive, anche se per tre soli giorni. Oggi tutti "dobbiamo" fare festa perchè viene restituito alla città un pezzo di storia dell'architettura d'inestimabile valore. Grazie a questo evento abbiamo tutti messo l'abito delle occasioni migliori, compreso i primi detrattori dell'opera, e rispolverato il sorriso di circostanza per tagliare il nastro, farci i nostri selfie, e portare alla vita per 3 giornate il TEATRO SAMONA'. Abbiamo smesso di parlare male del Samonà; abbiamo tirato a lustro la città; abbiamo addirittura istituito le zone a traffico limitato per i graditi ospiti. Abbiamo anche noi, finalmente dopo 30 anni, il nostro evento mondano alla scala. "The show must go on"! Ma cosa accadrà quando alla fine della fiera tireremo via i tappeti?

mercoledì 26 novembre 2014





“Day off: io spengo lo studio”

l’Ordine degli architetti di Agrigento aderisce alla protesta, che avrà luogo su scala nazionale, per rivendicare il diritto a compensi certi, a un’adeguata retribuzione, alla dignità del lavoro, a leggi semplici ed efficaci, all’apertura del mercato del lavoro pubblico.

Un giorno di ‘black out’ per gli studi professionali degli architetti: una singolare forma di protesta per spingere il Governo nazionale a ‘riaccendere la luce’ su un intero comparto, quello edile, che vessato da crisi economica e inadeguatezza normativa provoca gravi ripercussioni sulle categorie professionali coinvolte nei processi progettuali, che adesso si sentono lese nei diritti e nella dignità.
Dalle ore 20 del 26 novembre alle 20 del 27 novembre anche gli studi degli architetti di Agrigento chiuderanno i battenti nell’ambito di “Day off: io spengo lo studio”, iniziativa che avrà luogo in occasione della Giornata di mobilitazione nazionale dei lavoratori delle costruzioni.
Ci occorrono gli strumenti per trasformare in frutti il lavoro di ogni giorno: e per fare questo bisogna rilanciare la filiera del progetto, il settore edile, ci servono tutela, garanzie e sostegno con uno snellimento e una maggiore efficacia di norme, regolamenti e riforme.
Come abbiamo fatto presente nell’ultima conferenza dei presidenti tenutasi a Milano pochi giorni fa, è il Governo nazionale a doversi mobilitare per ricreare i posti di lavoro persi, aumentare gli investimenti nelle opere pubbliche e infrastrutturali, interventi di messa in sicurezza del territorio e del patrimonio edilizio, riqualificazione urbana, il contrasto del lavoro irregolare e di false partite Iva così come l’illegalità e le infiltrazioni mafiose negli appalti.
Operare nel mondo dell’edilizia è sempre più difficile: la filiera, che comprende anche il mondo delle professioni tecniche, è in ginocchio, e la nostra protesta non si fermerà di certo qui.
Abbiamo chiesto al nostro presidente nazionale, Leopoldo Freyrie, un intervento più incisivo nei confronti del Governo nazionale perché si progetti un rilancio del comparto edilizio.
La nostra è una rivendicazione del diritto a compensi certi, a un’adeguata retribuzione, alla dignità del lavoro, a leggi semplici, chiare ed efficaci, e all’apertura del mercato del lavoro pubblico”.



mercoledì 20 agosto 2014

CARO ASSESSORE, LA PREGO...SI FERMI!!


Giuseppe Samonà
piano particolareggiato - Montepulciano 1975


















Gentile assessore Salvatore Monte,
mi corre l’obbligo indirizzarle queste poche righe, in quanto architetto e dunque come si suol dire un addetto ai lavori, a seguito dell’ultimo intervento edilizio, da lei definito di riqualificazione ed abbellimento, verso un importante elemento urbano quale la scala di collegamento tra il quartiere di San Michele e l’incrocio tra la via Roma e la via Giuseppe Licata.
Parlo del primo tratto di rampe di scale a cui sono state aggiunte a mo di fregio (o questo quantomeno doveva essere il significato dell’intervento) delle piastrelle in ceramica decorata opera, senz'altro encomiabile, di alcuni maestri ceramisti della nostra città.
Premetto immediatamente che non è mia intenzione fare alcuna polemica in merito alla bruttezza o bellezza dell’intervento.
Io sono architetto di mestiere e so quanto stupido sarebbe andarsi ad infilare in una diatriba costituita su concetti così evanescenti come quelli sulla natura estetica delle cose.
Parecchi filosofi, filologi più degli architetti, hanno dissertato su concetti estetici e sono tutti (o quasi) pervenuti al risultato che il concetto del bello in maniera assoluta, e lo stesso del brutto, non esiste essendo un concetto del tutto soggettivo legato ad elementi percettivi ad ognuno di noi intrinseci.
Mi permetta però di spendere poche righe sulla definizione, a me pare da lei abusata, del concetto di riqualificazione urbana.
Dico abusata perché il termine di riqualificazione di un contesto urbano non può contemplare la semplice proliferazione di opere d’arte, per lo più semplicemente decorative, ad ogni angolo di strada o su fronti di palazzi di un certo carattere storico, come in questi giorni sta avvenendo nella nostra cittadina.
Un fenomeno questo che un filosofo e sociologo urbano come Lévi-Strauss non avrebbe esitato a definire ai limiti della schizofrenia (non si offenda la prego ma Lévi-Strauss ha affrontato studi sociologici ben precisi che lo hanno portato a definire schizofrenica l’attività compulsiva di riempire gli spazi, siano essi domestici, siano essi urbani, con elementi di arredo tra i più disparati).
Riqualificazione di un contesto urbano è qualcosa di più profondo, è qualcosa che va ricercato nella stratificazione della città, negli elementi che la compongono fatti dalle quinte degli edifici, assi viari, slarghi, piazze ed altri elementi riconducibili alla storia del popolo che la vive.
Riqualificare oggi dovrebbe significare ripristinare una solidarietà urbana, citando il maestro Giuseppe Samonà, in passato fortissima, in cui le attività sociali definivano la dinamica del tipo di relazioni di contesto di una certa strada o piazza, secondo una precisa caratterizzazione delle sue parti. Un tempo si veniva creando e trasformando l’arredo urbano, implicante un insieme d’iconismi, spesso molto espressivi nel definire gli spazi superficiali contrapposti, sia delle fronti costruite di una strada, sia del suo pavimento, sia degli oggetti fissi e mobili di vario tipo, che l’uso vitale della strada stessa veniva creando nel tempo, con un’animazione di vincoli formali espressivi, quasi sempre ad alta carica iconologica e dovuta in gran parte al modo di operare esclusivamente pedonale nella città*.
Riqualificare un contesto urbano dunque è un atto che va progettato nel suo insieme, dopo un’attenta ricerca nel tessuto urbano e delle sue componenti sociali che lo vivono, e che non si risolve nella semplice apposizione di un elemento decorativo; elemento che magari potrebbe anche essere apposto ma solamente in un tempo successivo e come componente terminale di un processo di ricerca delle radici urbane del luogo.
Fino ad oggi a Sciacca, proprio a causa di una mancanza di progettualità, abbiamo assistito ad una snaturalizzazione sistematica del nostro centro storico.
Un esempio eclatante, per il quale nessuno e meno che mai la Soprintendenza (ente preposto alla tutela dei beni paesaggistici e monumentali) ha proferito parola, lo si vede in ciò che ha subito il cortile Carini.
Cortile che un tempo ospitava gli ambienti più poveri e luridi di quello che fu il vecchio castello dei Perollo.
Un cortile fatto essenzialmente di architettura non ornata.
Un cortile abbarbicato ai pendii della collina saccense che, a seguito di un intervento puramente decorativo, decontestualizzato e finalizzato a soddisfare le ambizioni personali di un artista (che evidentemente sconosce la storia di Sciacca), ha perso le sue originali caratteristiche ed il suo fascino storico.
Per questi motivi caro assessore, sapendola persona attenta, la invito a fermarsi ed a riflettere.
La invito a dotarsi di un vero progetto organico di riqualificazione urbana del nostro centro storico che preveda, anche, l’inserimento di opere d’arte (sicuramente anche in ceramica) le quali potranno avere anche maggiore visibilità e possibilità di godimento da parte dei cittadini, e dei tanto ricercati turisti che vorranno gratificarci della loro presenza.
Restando a sua completa disposizione Le porgo i miei più cordiali saluti.

nota:*"L'arredo urbano e la città" di Giuseppe Samonà - pubblicato in: L'arredo urbano e la città - Edizioni Over, Milamo 1984.

domenica 22 settembre 2013

L'IMPORTANZA DEL BRANCO



L’insediamento del nuovo Consiglio dell’Ordine degli architetti di Agrigento per il quadriennio 2013/2017, che mi vede ricoprire il ruolo di presidente (tanto onorevole 
quanto oneroso), sta avvenendo in uno dei peggiori periodi di crisi economica e sociale per la nostra penisola; non considerando il fatto che sia anche uno dei periodi più bui per la nostra storia patria.

La politica economica adottata dai governi che si sono succeduti negli anni, forse degli ultimi decenni, che in maniera corsara ha tentato una riforma delle professioni intellettuali, ha innescato un meccanismo di sfiducia nei colleghi professionisti che li ha allontanati sempre di più dagli Ordini a tal punto da essere visti, questi ultimi, come organi istituzionali da abolire in virtù di una presunta appartenenza, dei loro rappresentanti, ad una casta di privilegiati che anziché pensare all’interesse collettivo della categoria è impegnata a mantenere i propri privilegi (ma quali?); la parola d’ordine imperante per tanti nostri colleghi alle ultime elezioni è stata “ABOLIAMO GLI ORDINI”.
Sicuramente una delle colpe attribuibili agli Ordini è quella di non avere saputo opporre le opportune resistenze contro una serie di riforme inique, che stanno portando la categoria degli architetti liberi professionisti a soccombere innanzi alle lobby del progetto ed alle lobby economico finanziare, basti vedere le ultime vessazioni come l’installazione dell’apparecchiatura POS all’interno degli studi professionali e l’obbligo della copertura assicurativa.
Ma la battaglia contro una riforma iniqua e per tratti demenziale ci vedeva come tanti Davide, ancorati ad una concezione intellettuale e quasi artigianale della professione, contro i Golia dell’alta finanza che hanno voluto imporre la globalizzazione del progetto mortificando il lavoro concettuale degli architetti e trasformandolo in un mero evento economico speculativo.
Una battaglia che ha costretto i nostri rappresentanti nazionali a mediare, al fine di non soccombere definitivamente, su una serie di riforme finalizzate a cancellare del tutto la figura dell’architetto libero professionista.
L’impegno primario del sottoscritto e di tutto il nuovo consiglio è pertanto quello di riavvicinare gli iscritti aiutandoli ad affrontare i nuovi temi della riforma, dalla tutela professionale alla formazione (leggasi Consiglio di disciplina e obbligo di formazione continua), al fine di riportare la figura professionale dell’architetto ad una centralità nei processi di trasformazione e tutela del territorio e di demiurgo della scienza delle costruzioni.
E’ fondamentale che l’Ordine si ricongiunga con il territorio e con i colleghi stremati e sfiduciati affinché tutti insieme possiamo avere l’autorevolezza necessaria a garantire la pratica del nostro bellissimo mestiere, uno dei più antichi al mondo.
Per fare questo è strettamente necessario che si ritorni a diventare gruppo, categoria, comunità, branco e, perché no, casta (ovviamente nel senso positivo del termine).
Solamente con l’unità d’intenti e attraverso una pluralità di azioni coordinate Davide potrà sconfiggere Golia o, quantomeno, contenerlo.
Ed è per i motivi sopra esposti che s’intende mettere in atto, oltre a quelli canonici, una serie di nuovi servizi rivolti sia ai tanti giovani, che loro malgrado s’immettono nel mondo del lavoro della libera professione, sia anche ai meno giovani, che si trovano disorientati all’interno di un mondo del lavoro che sta evolvendo in maniera sconsiderata e a noi sfavorevole.
Da ciò nasce l’esigenza dell’attivazione di uno “SPORTELLO LAVORO”. Un servizio che per ovvie ragioni non potrà garantire a nessuno il lavoro ma che avrà l’obiettivo di mettere in contatto gli iscritti con i diversi soggetti portatori d’interessi sociali, culturali ed economici; siano esse Amministrazioni pubbliche, Istituti culturali, Università, Associazioni di categoria, Unione Europea, facilitatori di Impresa, etc.
Un servizio che possa contribuire a chiarire i problemi ed i dubbi riguardanti la professione, i suoi aspetti tecnici, amministrativi, burocratici.
Un servizio di front office, assistenza e consulenza agli iscritti, al fine di chiarire aspetti di carattere pratico come: la partecipazione a gare di progettazione; nuove procedure amministrative quali DIA e SCIA; supporto per pratiche di CTU e di CTP; per fornire servizi di consulenza fiscale e previdenziale.
Un altro nuovo tema che dobbiamo obbligatoriamente affrontare è quello dell’INTERNAZIONALIZZAZIONE della nostra figura professionale al fine di allacciare rapporti e partnership con gli organismi professionali di altri Stati.
In un momento in cui la Provincia di Agrigento è la porta del bacino del Mediterraneo verso l’Europa è importante che l’Ordine contribuisca alla stesura di patti e protocolli da stipulare con enti ed organismi internazionali per promuovere l’architettura e la professione di un Architetto senza confini di operatività e darà vita a iniziative che illustrino l’operato e l’alta formazione professionale dei nostri architetti.
Questo servizio sarà utile anche perché dovrà offrire agli iscritti un’informativa precisa e puntuale sulle opportunità di lavoro che si presenteranno anche in paesi comunitari ed extracomunitari.
Sarà inoltre nostra cura riallacciare i rapporti di collaborazione con le amministrazioni pubbliche al fine di: migliorare le procedure delle gare per l’affidamento degli incarichi pubblici; sollecitare e collaborare alla stesura di una nuova legge urbanistica regionale che superi la quantità abnorme di leggi, leggine, circolari e regolamenti che molto spesso ci inducono in errore e ci mettono in balia degli uffici tecnico amministrativi preposti al rilascio di pareri ed autorizzazioni; alla riforma ed alla promozione dei concorsi di idee e di progettazione quale metodo di trasparenza per l’affidamento dei servizi di progettazione.
Quello che ci attende sarà un lungo e duro lavoro ma confidiamo nel nostro impegno, nella nostra buona volontà e soprattutto nell’aiuto di tutti gli iscritti che si vorranno cimentare a ricostruire, in “branco”, l’immagine dell’architetto del nuovo millennio.

giovedì 18 luglio 2013

LA STRATEGIA DELLA TARTARUGA

contro l'attuale sistema delle gare per servizi di progettazione



La scorsa mattina, mentre ero in auto per recarmi ad Agrigento, ascoltavo alla radio la trasmissione "Pagina 3", programma radiofonico su radio RAI 3, condotto da Edoardo Camurri il quale commenta le terze pagine dei quotidiani italiani tradizionalmente dedicate alla cultura.
Quella mattina il Camurri commentava un post del blog di Daniela Ranieri, pubblicato su Blog.Panorama.it ed intitolato "I tormenti di chi arriva in anticipo: proposta contro i ritardatari (a parte Kafka)", dove l'autrice inveisce, in maniera nevrotica e maniacale, contro i ritardatari.
L’inveire contro la categoria dei ritardatari mi ha interessato essendo io, per natura, un "puntuale cronico" che, masochisticamente, preferisce arrivare in anticipo agli appuntamenti nella consapevolezza di dovere aspettare il mio interlocutore il quale, in pieno spirito meridionale, mi ha dato un appuntamento con la ormai tipica frase: "ci vediamo verso le...".
E’ quel “verso” che ti frega perché racchiude un arco temporale molto variabile che lascia immediatamente intendere che non ci si incontrerà mai all’ora prestabilita.
Pur tuttavia continuo ad essere un fedele sostenitore del motto: "Piova, nevichi o stia male sarò puntuale".
Della lettura dell'articolo della Ranieri mi ha colpito in particolare un passaggio che riporto fedelmente di seguito: "... Una soluzione che mi è stata suggerita: prova ad arrivare in ritardo. Illusi. Cosa farei nel frattempo? Si tratta pur sempre di aspettare, nello specifico che scatti l’ora di un appuntamento, per poi oltrepassarla e presentarsi in ritardo. Ma con quanto ritardo? Mettiamo il caso di un incontro con un ritardatario cronico: è come la tartaruga con Achille...".
L’autrice utilizza il secondo paradosso di Zenone in cui la buona tartaruga batte in volata il pelide Achille. Ma nell’articolo della Ranieri Achille, piè veloce, rincorre la tartaruga non per superarla ma, addirittura, per arrivare dopo. Paradosso nel paradosso.
Questa considerazione ha generato in me un volo pindarico facendomi ritornare indietro nel tempo e precisamente all'ormai lontano 1994, al termine della mia sessione di laurea, quando dopo un periodo lavorativo, a titolo volontario, in Tanzania seguì una breve pausa di relax a Zanzibar, meravigliosa isola nell'oceano indiano di fronte le coste dell’Africa.
In particolare mi tornò in mente la mia giornata, finita con un’insolazione che ricorderò per tutta la mia vita, a Prison Island la piccola isoletta famosa per la sua colonia di tartarughe centenarie che la dominano indisturbatamente, fregandosene altamente dei turisti che le inseguono (me compreso) per immortalarsi in groppa a questi giganteschi e coriacei animali.
Fu forse proprio quel giorno del lontano 1994 che nacque la mia passione per le testuggini. Da allora non ho fatto altro che osservarle, scrutarne i comportamenti e soprattutto collezionarle, non vive perché non amo gli animali in appartamento. Ho tartarughe di ogni forma e materia: in vetro di murano, in terraglia, in pietra lavica, in osso, in gomma (uscita da un uovo Kinder), di carta, di legno etc. Per lo più sono souvenir dei miei viaggi.
Da alcune mie letture ho appreso come questo animale, che da un punto di vista anatomico non ha mai scisso i legami con i suoi antenati preistorici, attraverso il simbolismo del Cerchio e del Quadrato, costituisce non solo un perfetto tramite tra la tradizione esoterica estremo-orientale e quella ermetico-alchemica occidentale ma, intrecciandosi ulteriormente con l’iconografia cristiana, con il simbolismo del Graal e con quello Templare (da cui tra l’altro deriva quello Massonico), ci indirizza alla scoperta di un mondo nascosto di analogie e correlazioni che legano matematica e arte, geometria e biologia, musica e architettura in una inscindibile unità.
E’ osservando la tartaruga nelle sue espressioni facciali che ci sembra di vedere quanto essa sia consapevole di questo fardello di conoscenze millenarie che si porta addosso.
Della tartaruga la cosa che mi ha sempre affascinato è la lentezza dei suoi movimenti e l'espressione flemmatica con cui li compie, la sua quasi coscienza che ha nell'affrontare i duri percorsi della vita. Ad ogni movimento Sembra quasi che dica: "Arriverò, prima o poi arriverò, ma arriverò".
Quando osservi una tartaruga ti rendi conto che il paradosso di Zenone alla fine non è un paradosso; Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga perché le vie intraprese dai due sono diametralmente opposte.
La tartaruga è flemmatica, riflessiva, quasi calcolatrice e, soprattutto, porta con sé tutto il suo bagaglio d'esperienza che l'ha resa forte e coriacea nella sua vita centenaria e che non le consente di indugiare nel percorso. Ogni passo è soppesato ma finalizzato ad andare dritta alla meta.
Achille è irruento, istintivo, troppo veloce, poco riflessivo. Achille è così preso della sua tracotanza che nell’arrivare sul campo di battaglia, in una forma mista di narcisismo e senso d’invincibilità, dimentica di coprire il suo tallone rendendosi vulnerabile alla freccia di Paride.
Da sempre questo parallelo tra i due esseri mi ha indotto a numerose riflessioni sulla vita che oggi conduciamo e sul fatto che ci sentiamo un pò tutti Achille dimenticando la grande strategia della Tartaruga: “LENTI ALLA META”.
Dovremmo fare come l'Achille della Ranieri: rincorrere la tartaruga per arrivare dopo con la certezza di raggiungere comunque il nostro obiettivo, con maggiore tempo ma sicuramente con minore affanno.
Ovviamente, per deformazione professionale, non ho potuto fare a meno di ribaltare tale ragionamento sulla professione dell'architetto che l'attuale legislazione ha cercato di "ACHILLIZZARE" imponendo il ribasso sui tempi di progetto quale elemento cardine di valutazione per l'affidamento di un servizio di progettazione (oltre ad altre imbecillità varie).
Un ribasso sul tempo di progetto, è inutile dirlo, è a discapito della qualità architettonica dell'opera progettata.
Un opera progettata seguendo la scansione di tempi ridotti è inevitabilmente una cattiva opera che mostrerebbe le sue falle durante l'esecuzione del cantiere.
Imporre ridotti tempi di progettazione è fare il gioco delle imprese realizzatrici che oggi si appellano all'errore di progetto (inevitabile) per non fare i lavori e chiedere una rescissione di contratto indennizzata a causa di un mancato guadagno o addirittura per fare lievitare i costi di realizzazione attraverso le varianti (anch'esse inevitabili) che si renderebbero necessarie per l'ottimizzazione del progetto stesso.
Ed è questo uno dei tanti motivi per cui gli ordini professionali devono invocare con urgenza una riforma al sistema delle gare per servizi di progettazione.
Bisogna che gli architetti tornino in possesso dei tempi di progetto a garanzia della qualità dell'opera e dei costi di realizzazione.
Magari con più qualità del costruito nelle nostre città, nelle nostre periferie, nelle nostre campagne potremo attardarci agli appuntamenti, perché rapiti dall'osservazione di quanto ben realizzato intorno a noi, ed essere comunque giustificati.